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È sempre più raffinato lo stile letterario di Paolo Miggiano che con lo stesso rigore e implacabile senso della verità consegna nuove storie ai lettori.

La realtà la più spietata offre molteplici biografie di uomini e donne che non si sono assuefatti dinanzi alle nefandezze del male.

Con “L’altro casalese. Domenico Noviello, il dovere della denuncia” l’autore insignito di recente del titolo di Cavaliere dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana” mette in luce ciò che l’oblio e l’indifferenza avrebbero disintegrato nel buio dell’ignoranza.

Conoscere la storia dell’imprenditore che si è ribellato al sistema camorristico che lo stava rendendo vittima insieme ad altre centinaia di imprenditori della morsa del racket è doveroso.

A questo senso del dovere ha risposto Paolo Miggiano quando ha vergato un testo che si accosta alle precedenti pubblicazioni frutto di profonde analisi, acute osservazioni, assiduo studio e perspicaci riflessioni sul fenomeno mafioso in particolare quello della zona del casertano.

Lontano dalla retorica, l’autore si addentra in una vicenda che ci riconduce al 16 maggio del 2008 quando Mimmo Noviello venne massacrato a colpi di pistola a Castel Volturno per volere di Giuseppe Setola, capo dell’ala stragista del clan dei casalesi.

È fondamentale sin dal titolo del volume edito da Di Girolamo nella collana Linea di difesa”, la distinzione semantica fra i significati della parola “Casalese”. È premura di Miggiano compiere una scissione tra coloro appartenenti a una delle organizzazioni criminali più spietate della mafia e gli abitanti di Casal di Principe.

Sarebbe un grave errore inceppare nell’inganno linguistico e per tale ragione l’espressione “L’altro casalese” scelta da Miggiano indica principalmente quei cittadini onesti che abitano nel territorio che quotidianamente deve fare i conti con la dura realtà ma che allo stesso tempo tentano di arginare questo cancro sociale emulando figure che sono state esempio di impegno civile e rigore morale come Federico Del Prete, sindacalista che denunciò le irregolarità amministrative riscontrate nel corso delle fiere settimanali fino a spingersi a far luce sulle estorsioni di cui erano sistematicamente vittime i venditori ambulanti, e don Peppe Diana che cercò di aiutare la gente nei momenti resi difficili dalla camorra, negli anni del dominio assoluto della mafia casalese.

                         

Ventiquattro capitoli ciascuno di essi introdotto da una citazione che riassume il senso di ogni sezione, costituiscono il corpo di un libro che “oltre a tracciare il profilo umano dell’uomo che osò sfidare il clan Bidognetti compie un viaggio nelle logiche criminali che portarono all’assassinio di un uomo esemplare, che con coraggio seppe resistere”. Nelle pagine del volume si ricostruisce la storia dell’organizzazione criminale; la guerra interna tra il clan Bidognetti e il gruppo guidato da Giuseppe Setola; il potere di quest’ultimo mandante dell’omicidio Noviello, che nell’udienza del primo giorno di ottobre del 2014 rilascia una dichiarazione apparentemente innocua ma che nel linguaggio mafioso esprime il suo potere nonostante il boss sia in carcere. Non di poco conto è poi il ruolo delle donne nei contesti mafiosi che appare essere sempre molto decisivo come quando la moglie di Massimo Alfiero “ordina” al marito di interrompere la collaborazione con gli inquirenti.

Nel testo grande rilevanza si attribuisce al lavoro svolto dai giornalisti che con le loro inchieste contribuiscono a denunciare i traffici criminali. Considerevole è stato l’impegno di professionisti come Maria Rosaria Capacchione, Amalia De Simone, Amedeo Ricucci, Michele Santoro, Roberto Saviano e molti altri citati nei libri di Miggiano che hanno contribuito a far emergere la verità.

Domenico Noviello era un cittadino di San Cipriano d’Aversa, poco distante da Casal di Principe, e aveva una scuola guida a Castel Volturno. Nel 2001 denunciò i suoi estorsori facendoli arrestare ma questo gli costò la vita. La sua morte non fu dettata esclusivamente dal desiderio di vendetta da parte dei criminali senza scrupoli ma principalmente per intimorire, seminare il terrore: “L’ignobile omicidio di Mimmo Noviello fu pensato, quindi, quale mero strumento per trarre un indiretto profitto, quello di suscitare negli altri imprenditori un condizionamento psicologico che li portasse a non seguire il suo valoroso esempio”.

Con la delicatezza di chi scrive per passione e crede nel potere dei libri vergati per mantenere indelebile il ricordo di storie importanti, Paolo Miggiano raccoglie le testimonianze di Massimiliano, Maria Rosaria, Mimma e Matilde, i figli di Domenico Noviello, che offrono il ricordo di un padre buono.

“Ci sono dolori che – per quanto intensi e forti siano – non possono, e forse non dovrebbero, essere ostentati. E il dolore dei figli di Noviello è uno di questi. Un dolore intimo, mai ostentato, mai messo in mostra, mai esibito. Le loro lacrime non le hanno vendute, come hanno fatto in tanti, al primo talk show. I figli di Noviello hanno rivendicato il diritto di piangere in privato. Hanno sempre mantenuto un riserbo ed un profilo basso rispetto all’immane tragedia che li ha colpiti. Non hanno mai voluto o tentato di conquistare posizioni di privilegio, grazie al fatto che il loro padre fosse stato ammazzato”.

Concludendo anche in questo lavoro editoriale emerge costantemente il coinvolgimento dell’autore che ancor prima di indossare i panni dello scrittore, ha scelto da cittadino di indignarsi davanti ai soprusi e denunciare la “memoria dimenticata”. Ha deciso di farlo ricorrendo alla parola intesa come un seme da far germogliare nelle coscienze.

“Davanti al luogo dove Mimmo fu ucciso, ora sorge un alberello di ulivo, simbolo della pace. Fu piantato l’anno successivo a quello del suo assassinio. Quell’albero ora è cresciuto. È cresciuto storto. L’aver lasciato crescere in quel modo proprio quell’albero è il segno, l’emblema di una più generalizzata incuria, di una distrazione, di una colpevole noncuranza della memoria. Sono figlio di contadini e in fondo contadino io stesso. “L’albero si raddrizza quando è piccolo”, dice un detto abbastanza conosciuto, ma non a Castel Volturno. In fatto di alberi ho imparato troppo presto che un albero se cresce storto è difficile che poi diventi dritto e che per non farlo andar su storto, come quello dedicato a Mimmo Noviello, a volte è necessario affiancargli un tutore, un picchetto, un semplice legno che lo aiuti a crescere senza piegarsi. A Castel Volturno, per l’albero di Mimmo Noviello questa accortezza non si è avuta. E che la distrazione sia stata generalizzata e perpetua, anche quando si tratta di memoria, lo si può osservare in qualsiasi momento dell’anno che non sia, ovviamente, il 16 maggio, il giorno della ricorrenza dell’assassinio di Mimmo Noviello”.

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