“Edoardo De Candia. Amo. Odio. Oro.” è il titolo della prima retrospettiva dedicata al pittore leccese in occasione del ventesimo anniversario dalla sua morte.

La mostra promossa da Regione Puglia – Assessorato all’Industria turistica e culturale e Provincia di Lecce, in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese, l’Istituto di culture mediterranee e il Museo Sigismondo Castromediano, è stata curata da Lorenzo Madaro e Brizia Minerva che hanno selezionato circa cento opere esposte in tre sezioni che comprendono oltre ai dipinti anche fotografie, documenti originali e quotidiani dell’epoca.

Un lavoro certosino svolto con attenzione è stato fatto anche dall’operatore culturale Mauro Marino che ha voluto soffermarsi sull’aspetto poetico di De Candia organizzando un evento collaterale al vernissage.

Si tratta di tre passeggiate che ripercorrono i luoghi cari a Edoardo o che lo evocano per interessanti aspetti culturali e artistici. Questo peregrinare è un modo per ricordarlo attraverso le sue stesse parole facendo così rivivere il legame che l’artista sui generis aveva con il Salento, il mare, la città. Molti raccontano di averlo visto camminare sulle strade per San Cataldo o verso Torre Veneri, Lecce; percorrere i sentieri delle Cesine, Vernole, o ancora dirigersi a Sant’Andrea e Torre dell’Orso, Melendugno. Luoghi privilegiati per realizzare i suoi dipinti.

Allestita nell’ex Chiesa di San Francesco della Scarpa a Lecce la mostra inaugurata il 7 luglio è visitabile fino al 30 settembre, tutti i giorni dalle 10 alle 12.30 e dalle 18.30 alle 23.30.

La gente lo credeva pazzo per via della sua eccentricità, per quella carica di erotismo che caratterizzava i suoi dipinti astratti e surreali, per la sua irregolarità, per un estro singolare e incompreso che scandalizzava una società basata su un perbenismo moralista.

Gli anni di ricovero, gli elettroshock, i sedativi e le docce fredde hanno umiliato e offeso l’uomo e l’artista che ha saputo vivere scevro da inibizioni, ipocrisie, falsità.

Oggi ci piace ricordare il genio circondato dagli amici come Carmelo Bene e Rina Durante che come lui hanno inteso la cultura un’espressione dell’essere e non una mera diffusione di saperi perché l’intelletto, ci ha insegnato De Candia, è un miscuglio di ragione e follia, amore e odio, bianco e nero, giusto e sbagliato, vero e falso, è tutto e niente.

Nato nel 1933 a Lecce ha appreso i primi rudimenti dell’arte lavorando sin da piccolo in una bottega come apprendista cartapestaio. Crescendo si è cimentato nella pittura iniziando a vivere esperienze importanti nell’ambito anche fuori dalla sua città natia facendo conoscenze con figure di rilievo.

Nel ’54 dopo un periodo trascorso fra Bologna e Parigi incontra Francesco Saverio Dòdaro con il quale compie una sorta di rito purificatore: fanno un falò e bruciano i loro quadri convinti che questo li porterà a condurre nuove strade artistiche.

La continua ricerca artistica di De Candia lo induce a realizzare una sintesi fra espressionismo pittorico e le correnti verbo-visive. Nascono “le prime forme di vocali con la corona e dittonghi a tutto foglio”.

È in quello stesso periodo che viene internato per la prima volta in un manicomio. È lui stesso a raccontare:

“Ecco. Una ventina d’anni fa mi hanno messo per la prima volta in manicomio a Lecce perché mi stendevo nudo sulla terrazza, avevo rotto la finestra della mia camera, bevevo un po’, facevo la corte a una e non la fermavo mai, innaffiavo piante contro la volontà del giardiniere; il risultato dei medici fu: paranoide schizofrenico; i miei genitori erano colpevoli, ma i medici erano ancora più fessi e colpevoli. Dopo Roma, a Lecce, mi sentivo così bene, tanto bene… Mi hanno messo di nuovo in manicomio. Appena mi sentivo bene mi mettevano in manicomio. Intanto dipingevo, vendevo agli infermieri, ai medici porci, e poi, e poi…”

Definito dall’amico Antonio Verri come il “vichingo di via Monte Sabotino” o il “cavaliere senza terra” Edoardo De Candia è stato descritto da molti ma uno dei ritratti più veritieri lo ha vergato Vittorio Pagano:

“Alto magro scapigliato: in pantaloni e maglione, girovagava poi confusamente in città, nottate intere… A me – prosegue Pagano – chiedeva che gli parlassi di Rimbaud e di Nitzsche, di poesia e del mondo, e s’aggrappava ostinato a chi mostrasse di seguirlo in estenuanti fabulii di vita e d’arte. Non sapeva nulla di Dino Campana quando espatriò col solo bagaglio d’una spavalda innocenza e si fece braccare tra Inghilterra ed Austria. Ce lo ritrovammo accanto un giorno d’estate: cresciuto, imbiondito, un efebo di bronzo liquido, con un palmo di bacchette e una camicia aerea, inutile. Camminava interminabilmente a piedi, giungeva al mare e s’inchiodava a uno scoglio, o da lontano era spesso segnalata la sua sagoma nuda in balenanti tuffi. E sino ad oggi così: una leggenda che la “provincia” si rifiuta però di celebrare, preferendo avvilirla nelle cronache delle questure e dei referti medici. Ma è troppo difficile capire un’eresia che non aggredisce, che si consuma in bossoli di dolcezza. Non la si perdona”.

 

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