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“Le nuvole” di Juan Josè Saer scritto nel 1997 è stato recentemente pubblicato in una elegante e preziosa edizione da La Nuova frontiera. La storia tradotta dallo spagnolo da Gina Maneri è ambientata in America Latina e ha inizio con il ritrovamento di un misterioso floppy disk contenente il diario di Real, un giovane dottore che nel XIX secolo compie una vera e propria impresa epica.

Dopo aver conosciuto negli ospedali di Parigi il dottor Weiss amico, maestro, mentore condivide con lui il progetto che li vede impegnati nell’apertura della Casa di Salute poco lontano da Buenos Aires.

“La Casa di Salute sostituiva il focolare domestico che i malati avevano perduto; il dottore aveva avuto l’idea di aprire l’istituto, forse il primo nel suo genere in tutto il territorio americano, sapendo che le famiglie ricche non sapevano cosa fare dei loro matti e che, per proteggere la propria reputazione, non si rassegnavano a lasciarli vagare per le strade come fanno i poveri, ma avrebbero desiderato un luogo che potesse accoglierli”.

La scena iniziale è affidata a Pichón Garay che mentre attende a Parigi il suo amico Tomatis raggiungerlo dall’Argentina scopre inaspettatamente la storia di un medico allievo dell’analista Weiss, celebre psichiatra austriaco.

Esaminando il floppy dov’è stato riportato un antico manoscritto venuto in possesso dallo studioso Marcelo Soldi viene a conoscenza delle avventure avvenute intorno al 1804 di una carovana composta da un medico, il giovane Real, che con dei malati di mente, un gruppo di soldati e di prostitute sono diretti alla clinica di Buenos Aires: Le Tre acacie, un ospedale dove il rispetto e l’attenzione per i pazienti lo rendono un luogo prediletto per coloro colpiti da disturbi psichici.

“Partimmo dunque all’alba del primo agosto del 1804. Se qualcosa, tra i tanti avvenimenti, vicissitudini, anomalie o comunque li si voglia chiamare che costituirono il nostro viaggio, se qualcosa, dicevo, potesse rappresentare la cifra di ciò che incombeva su di noi, basterebbe forse il modo assurdo con cui si inaugurò il cammino, ovvero il fatto che, sebbene la nostra meta si trovasse a sud, fu a nord che la carovana si diresse, e che dovemmo procedere per un paio di giorni in quella direzione prima di piegare a ovest al fine di ritrovare la nostra vera rotta”.

Non solo dall’Argentina ma anche dal Perù, Brasile e Paraguay giungono le richieste di cura dalle famiglie che non sanno come gestire i comportamenti anomali dei malati di mente. Quello che agli occhi dei più poteva risultare un problema per il dottor Weiss è in realtà un oggetto di studio al quale riservare il massimo dell’attenzione.

“Solo la follia osa rappresentarsi quei limiti del pensiero che spesso il senno, proprio per continuare a rimanere senno, preferisce ignorare, e questo rende i matti distanti, ostinati, irrecuperabili”.

Restituendo la dignità spesso negata il dottor Weiss offre ai suoi pazienti la possibilità di svolgere mansioni tali da impegnare il loro intelletto ma soprattutto li comprende, non li condanna o punisce per quelle reazioni incontrollabili che scuotono la normalità.

“La demenza non doveva essere giudicata con il metro della morale né considerata con le solite categorie di pensiero”.

Questa missione salvifica è emulata dal suo discepolo, il giovane medico che compie un viaggio accompagnando nuovi pazienti nell’ospedale del dottor Weiss.

“Per noi, l’esercizio rigoroso della scienza medica era l’unica forma possibile di carità”.

Attraversando la pampa argentina ricoperta da un cielo dove le nuvole enormi e contorte si rincorrono Prudencio Parra, lo schizofrenico con i pugni sempre serrati; Teresita, la suora colta da raptus mistico con un singolare appetito sessuale; Troncoso, l’insonne irrequieto; i fratelli Juan Verde e Verdecito intenti a ripetere costantemente le stesse parole ma con un tono di voce sempre differente sono guidati e curati dal dottor Real.

“Eravamo l’effervescenza delle cose vive, erba, animali, uomini, e aggiungevamo all’estensione infinita e neutra dell’inanimato la lievità colorita e tragicomica del delirio, che ci faceva convivere in una molteplicità di mondi esclusivi e diversi plasmati secondo le leggi dell’illusione, molto più ferree di quelle della materia”.

Insieme devono affrontare un viaggio a cavallo e in carrozza ricco di imprevisti e difficoltà: dalle strade piene di acquitrini e improvvise inondazioni causate dalla piena invernale del fiume a un rogo che sconvolge la pianura rendendo il terreno a tratti duro e impervio in altri sabbioso e instabile all’incontro con una tribù d’indios sanguinari.

“A differenza di quanto accadeva tra gli uomini, in natura non esistevano gerarchie e in ogni fenomeno naturale erano implicite le leggi che reggono l’intero universo”.

È questo un libro nel quale l’ignoto sembra acquisire forma e dimensione grazie ad una storia di rara bellezza ma anche attraverso la scrittura poetica e profonda di Juan Josè Saer che ci ha lasciato nel 2005.

“Le nuvole” è un’approfondita riflessione sulla follia e sull’intenzione di narrarla senza avere alcuna presunzione di spiegarla. Il romanzo potente e delicato è piuttosto un’opportunità per comprendere come tra ragione e follia non ci sia un divario ma un legame più saldo di quanto si possa immaginare perché in fondo “è  la ragione a generare la pazzia”.

Riportiamo un brano tratto dal romanzo nel quale l’autore descrive “Le nuvole”:

Finalmente, un pomeriggio, le nuvole cominciarono ad arrivare. Poiché era ancora presto, le prime erano grandi e bianchissime, con i bordi ondulati, e quando passavano troppo basse, la loro stessa ombra ne scuriva la faccia interiore, visibile alla terra. avevamo la speranza di vederle annerirsi e, partendo dall’orizzonte in un’interminabile massa color ardesia, coprire in breve tempo il cielo tutto e sciogliersi in pioggia. Ma per due giorni continuarono a correre sfilacciate e mute, provenienti, come credo di aver già detto, da sudest, e scomparendo dietro di noi, in qualche punto alle nostre spalle di un orizzonte già percorso. A seconda dell’ora del giorno, cambiava forma e colore, e soprattutto fluttuavano a velocità diverse, come se il vento, di cui pativamo tanto la mancanza a terra, là sopra soffiasse impetuoso. A volte erano gialle, arancioni, rosse, lilla, violette, ma anche verdi, dorate e persino azzurre. Anche se tutte si assomigliavano, non ne esistevano, non ne erano esistite sin dalle origini del mondo né ne sarebbero esistite sino alla fine inconcepibile del tempo due identiche, e a causa delle forme diverse che assumevano, delle figure riconoscibili che rappresentavano e che si andavano dissolvendo a poco a poco fino a non assomigliare più a nulla e addirittura assumere una forma che contraddiceva quella che avevano avuto fino a un momento prima, mi sembravano fatte di un’essenza simile a quella dell’accadere, che si sviluppa nel tempo come loro, con la stessa strana familiarità delle cose che, nell’istante stesso in cui si succedono, svaniscono in quel luogo che mai nessuno ha visitato e che chiamiamo passato.

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