Ho apprezzato tutti i lavori di Edoardo Winspeare e “La vita in comune” è un’ulteriore conferma della bravura di un regista in grado di raccontare storie in maniera autentica, ironica e a tratti spietata (la povertà di un paese, l’incapacità di un’amministrazione comunale nel gestire i problemi della comunità, la malavita, ecc.).

Poi arriva la poesia a salvare le anime dei Fratelli Rrunza, giungono le parole che escono dai pensieri e la capacità di esorcizzare le colpe attraverso i componimenti. Perchè Winspeare ha scelto la poesia come ancora di salvezza per queste anime perse? Perchè la poesia è redenzione e bellezza.

Siamo a Disperata, un piccolo paese del Salento dove un sindaco deve fare i conti con una comunità che vive una situazione di forte disagio. L’uomo è fragile come la sua terra e non sa come fare a rialzarsi dall’abisso nel quale sembra essere sprofondato. Parallelamente due fratelli tentano di dare una svolta alla loro vita fatta di povertà e frustrazioni coltivando il sogno di diventare criminali.

L’ambizione, vacua e misera, si sgretola davanti al fallimento di due rapine. C’è una coscienza pura e innocente che emerge in questi personaggi che tessono la trama del film. C’è una forma di onestà ingenua che si impossessa dei loro corpi da energumeni, apparentemente privi di grazia ma che saprà poi palesarsi.

Un filo rosso tiene ben salde la storia del sindaco con quella dei due fratelli Rrunza ed è la poesia.

La passione del primo cittadino nei confronti della parola si manifesta in carcere dove lui tiene delle lezioni ai detenuti. Fra questi c’è Pati che deve scontare una pena per aver derubato il benzinaio del paese e aver ucciso il cane che tentava di difendere il padrone.

Il tormento per il gesto violento strugge d’angoscia l’uomo che solo attraverso l’incanto poetico riesce ad esorcizzare quel senso di colpa. La poesia diviene così lo strumento salvifico di un peccatore che tenta di redimere anche il fratello Angiolino assetato di denaro.

Pati troverà insieme al sindaco Filippo Pisanelli, ormai suo amico e confidente, un’escamotage bizzarro ma efficace per offrire anche ad Angiolino la speranza di un cambiamento.

La retorica è lontana da questo lavoro cinematografico e l’ironia è il tratto distintivo di un film profondo e intenso. Il regista non esprime critiche, non cade nei clichè e non propina moralismi piuttosto narra con una rara sincerità artistica le contraddizioni che si agitano nell’animo umano, scandagliando la parte sana che appartiene ad ognuno di noi e che spesso non emerge.

Winspeare irrompe nella placida staticità di un lembo di terra abbandonato da tutti e ci racconta di quel Sud del Sud dei Santi (ricordando Carmelo Bene) dove la poesia è tangibile tanto è viva e presente.

Fulcro della storia è una donna, Eufemia, moglie di Pati ma da lui separata per via delle scelte che non condivide, e consigliere comunale che con fermezza frena i piani scellerati degli altri membri dell’amministrazione che sembrano avere come unico obiettivo quello di edificare su una delle zone più incontaminate del territorio… difficile non pensare a Renata Fonte (Assessore alla Cultura e alla Pubblica Istruzione di Nardò uccisa nel 1984 per aver impedito la speculazione edilizia nel territorio di Porto Selvaggio).

Eufemia interpretata da Celeste Casciaro splende nel suo sguardo fiero e ribelle, a volte stanco e sfiduciato in altre luminoso e ottimista. Di lei si innamora il sindaco che però non riesce a dichiarare il suo amore sebbene Eufemia sembra aver già intuito i sentimenti di Filippo Pisanelli.

Il ruolo che riveste l’attrice Casciaro è di altissimo livello: ci sorprende di lei la capacità di calarsi nel ruolo di una donna che rappresenta l’emblema di una storia, raffigura la terra madre pronta ad accogliere e a perdonare ma anche ad esprimere sdegno e vergogna per quello che l’essere umano spesso compie in maniera scellerata. Il volto bellissimo ed elegante di Eufemia ci rammenta la necessità di “preservare la bellezza del creato”.

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